L'amore zitto di Sergio Saggese

Finalmente è venerdì e, come vi abbiamo promesso la scorsa settimana, questa che segue è la seconda parte del racconto di Sergio Saggese. La prima, pubblicata venerdì scorso, la potrete trovare e leggere qui.
Come nella vita reale anche nei racconti di Sergio ritroviamo amarezze e insoddisfazioni, talvolta disperazione, soprattutto destini per niente banali e coraggiosamente accettati.


L'amore zitto di Sergio Saggese

Fu per questo che una volta qui, una volta nel Bihar, mi venne voglia di informarmi se era ancora viva, se la bella Mahima ancora sculettava. E magari incontrarla, incontrarla senza dirle chi ero e godere a ferirla dicendole che d’ora in avanti le sarebbe toccato camminare s’una terra dov’erano state piantate, proprio così’, piantate le ceneri di un uomo che l’aveva amata alla perdizione e che adesso non avrebbe smesso un istante di fissarle il culo.
Avrei detto apposta culo, anziché sedere, perché vivesse per sempre nel pudore, fino a sentirsi lo sguardo di Mohanish risalirle avidamente su per le cosce a ogni passo.

Ma quando arrivai qui cambiò tutto.
C’era stata da pochi giorni un’alluvione.
Trovai Mahima di fronte a un ambulatorio mobile dell’UNICEF, accampata insieme a tanti altri s’una banchina in attesa di cure.
Avevano tutti la diarrea per aver bevuto l’acqua del fiume inquinata dalle carcasse del bestiame.
Avevo chiesto di lei e me l’avevano indicata.
Ma non la raggiunsi subito. Me ne stetti a guardarla da lontano, impalato, non so manco io perché, in mezzo al passaggio dei soccorsi.
Era stato inondato l’intero villaggio. L’acqua era entrata fin dentro le capanne.
Per salvarsi, lei e tutti gli altri erano saliti sopra i tetti delle loro case rimanendovi per otto giorni.

Seppi che s’era sposata e aveva una figlia di nome Anisha. Una figlia che le stava coricata addosso, adesso, e respirava agitata nel sonno.
Impalato che ero in mezzo alla strada, i volontari della Croce Rossa non potevano evitare di spingermi da parte nel loro viavai soccorrendo feriti e distribuendo biscotti.
Urtandomi anch’essi, i bambini gli si precipitavano incontro chiedendo anche del cioccolato.

I bambini del Bihar non si accorgono di essere bambini e preferiscono il cibo ai giocattoli.

Se muoiono neonati, la regola vieta che vengano bruciati.
Cose che somigliano tristemente a giocattoli sono i loro cadaveri che galleggiano come bambolotti sul Gange.

Era giorno pieno. C’era il panico.
Un infermiere della Croce Rossa mi piazzò delle compresse per la potabilizzazione dell’acqua in mano. Me le rigirai nel palmo, quelle cazzo di compresse, e mi venne da piangere.
Andai ad accasciarmi accanto a lei, accanto a Mahima e la fissai a lungo muto e incapace.
Lei mi fissò a sua volta senza impaurirsi e la cosa non mi stupì affatto.
C’è qualcosa, una sorta di polvere che chi ci ha amato prima di morire ci lascia addosso, un qualcosa di cui gli altri, incontrandoci, si accorgono.
Mahima m’avrebbe confidato tempo dopo di non aver avuto il minimo timore in quel momento, per il fatto di aver come percepito in me una sorta di inspiegabile già-conosciuto.

La vidi cadere, dopo poco, pure lei nel sonno, poggiando la testa su quella di sua figlia.
Avevano i capelli identici, lei e Anisha.
Adesso che s’erano intrecciati tra loro come le radici di un albero, mi riusciva impossibile distinguerli.
Li trovavo scuri come il bitume delle petroliere che smontavamo a mani nude nel Gujarat e brillanti come le alghe che trovavamo a migliaia sulle carene.
Ma pensavo a queste cose e soffrivo per il rammarico di non aver modi migliori di elogiarli, di non avere altri mezzi e altre parole che non fossero quelle rozze cresciute con me da sempre; di non avere per Anisha altra poesia che quella del mio lurido mestiere.
Ci fosse stato Mohanish, mi dissi, avrebbe saputo certamente confortarmi, e mi ritrovai così a rimpiangerlo per un’ennesima volta.
«Mohanish…» sussurrai a me stesso « Mohanish…».
Ricordai quanto m’aveva detto riguardo all’impossibilità di definire i deserti e capii perché, pensando alla mia misera vita, adesso, mi si era seccata la lingua.

Erano rimaste sole Anisha e sua madre, da quando suo padre aveva ammazzato un prete lanciando una bomba su un gruppo di fedeli cattolici riuniti nella Chiesa di Pràrthana.
Faceva parte di un gruppo di attivisti indù decisi a impedire a tutti i costi le conversioni al cristianesimo.
S’era ucciso subito dopo l’attentato.

Riguardai i capelli di Mahima e di Anisha e dovetti frenare la tentazione di carezzarli.
Percorsi con lo sguardo il sedere di Mahima adorandolo come un dio al quale mi ritrovai a offrire i pensieri di Mohanish.
Lo guardai a lungo senza alcun pensiero lussurioso.
Cosa che feci invece contemplando il corpo della bellissima Anisha coricata di fianco sulla stessa banchina.
Ansimava nel suo sonno e i capezzoli le ballavano sul petto.
Immaginai di scoprirglieli delicatamente, di imbrattarglieli carezzandoli con le mie mani luride di  nafta appena ritirate dal ventre d’un peschereccio.
Immaginai di fissare a lungo i suoi occhi e vederli poi aprirsi.
E fu quello, credo, sì, dovette essere proprio quello, l’istante in cui mi innamorai di lei.
Da che sembrava dormire, Mahima, a questi miei pensieri lussuriosi levò subito il suo sguardo su di me e mi disse: «È tardi…» calandolo poi giù subito quel suo “è tardi” come un braccio stanco.
Trasalii.
Oltre che la stranezza di quelle parole, mi sorprese il fatto che mi parlasse come mi conoscesse da sempre.
Sentii di arrossire.
Poi lei aggiunse sconvolgendomi: « Sta morendo…»
«Chi?…» domandai subito, non immaginando manco lontanamente che si riferisse ad Anisha, che di lì a poco avrebbe emesso un rantolo raccapricciante.

Non l’ha mai saputo che m’ero innamorato di lei.
È morta quel giorno stesso, di colera.
L’amore che avrebbe voluto parlarle m’è rimasto zitto dentro come un topo.
Sento dire che li aveva grigi gli occhi che non ho mai visto, dello stesso grigio di certe spiagge del Gujarat, dicono, verso le quali volgeva spesso il suo sguardo.
Raccolgo ogni voce su di lei e la tengo.

Dalla sua morte decisi di restare qui nel Bihar per sempre.
Mi misi in cerca di un lavoro, provai subito nella fabbrica di scooter di Fathua senza risultati, poi riuscii a farmi assumere nella nuova raffineria di Barauni dove tutt’oggi lavoro.

Ricordo che per farmi assumere, gesticolai apposta come un matto col direttore del personale perché notasse le mie mani usate.
Doveva assolutamente vederle. Erano la mia unica speranza le mie mani usate, il mio unico titolo.
Le mie mani incallite e piene di crepe nere di petrolio che somigliano a scritte e chissà che non lo siano.

Sono rimasto qui per lei, per Anisha.
Ma anche per Mahima, certo.
E per Mohanish.
E per tutti i deserti che dovrò imparare a dire.

Sergio Saggese

Collana Transfert

Categories:

6 Responses

  1. Nel linguaggio di tono basso ma fortemente espressivo, che Sergio Saggese sa perfettamente intonare all’ambiente dei diseredati, un racconto decisamente poetico, non per retorica raffinatezza di immagini, ma per una verità scabra ma ricca di quell’ umanità che oggi sembra quasi perduta.
    Una poesia che si rivela particolarmente in espressioni ed immagini che sottintendono una cultura ingenua ma salda nei valori fondamentali dell’amicizia, dell’amore, della gratitudine e della memoria. (es.“ …soltanto quando lo si sotterra nel posto in cui è nato……un uomo non lo si seppellisce semplicemente, ma lo si pianta…’-‘…le mie mani incallite e piene di crepe nere di petrolio che somigliano a scritte e chissà ch nono lo siano.’)
    Tutti personaggi che sanno dare, magari tacendo, perché proprio nel silenzio non c’è inganno, e basta un gesto, un’ occhiata per capirsi. Così l’amore zitto del protagonista colpisce per l’intensità e la brevità del tempo in cui vive. Nessuno lo conosce nessuno potrà parlarne,vive e muore in pochi istanti di silenzio. Ma muore veramente? si può misurare la durata di un sentimento dal tempo in cui vive la persona amata? Quando poi porta con sé tutta l’anima e la vita di chi l’ha percepito? Certe emozioni sono fuori del tempo, non si contano in ore.
    Domina nel racconto un soffio magico, mistico più che religioso, forse il respiro del deserto, un deserto che magari è il Gange dove galleggiano piccoli corpi perduti, un nulla che parla nei silenzi di certi sentimenti troppo forti per trovare parole.

    • Carissima Luciana, sei sempre raffinata nei tuoi commenti. E acuta. E a me molto cara. Hai colto appieno il senso di tutto e, ahimé, anche il mio destino: quello di “Suonare l’arpa” ha detto di me qualcuno “con dita insanguinate”.
      Grazie…

  2. Racconto bellissimo,la scelta delle parole ben dosata ,la descrizione della protagonista che accende il desiderio anche al di fuori della sua fisicità mi ha fatto ripensare a Proust(lasciamo le donne belle agli uomini senza immaginazione).La passione che si percepisce anche nel deserto delle parole è pura poesia.

    • Grazie Laura.E’ bello vedere che si è riusciti nel proprio intento. E che ci sono lettori che mi danno speranza. E’ stato proprio così, anzi per me lo è sempre, doso le parole, come tu hai bene intuito, come meglio posso, perché arrivino più in profondità. Un po’ come si fa con le note in musica. Vero anche quanto dici riguardo alla poesia. Non riesco a scrivere senza interpellarla. Sono lusingato per il richiamo a Proust.In realtà questo racconto è il primo capitolo di quello che sta diventando un romanzo. Ho deciso di lavorarci. Sono già al capitolo nove. Spero di non sbagliare, e spero anche di essere riuscito e riuscire nei capitoli successivi a mantenere il livello. Dimmi se sei d’accordo. Grazie ancora e un abbraccio. Sergio.

      • Certamente il libro sarà bellissimo spero di leggerlo al più presto.Ho già postato sul mio profilo la frase :-i deserti quelli veri cominciano proprio nelle parole.E pensare che sono venuta a conoscenza di questo sito per una diatriba con mia figlia sui confini e digitando la parola in modo errato mi si è aperto un mondo da me più amato quello dei libri .Il grazie se permetti ,lo dico io.

        • Grazie Laura per le tue parole e per il tuo entusiasmo! Se non l’hai già fatto ti invito a leggere anche gli altri racconti di Sergio Saggese che troverai all’interno della nostra rubrica Visioni mondaniche, mi farebbe molto piacere conoscere la tua opinione perché la scrittura di Sergio io credo sia per certi versi magica! A presto, Nadia

Lascia un commento