Che fine ha fatto Dario Bellezza?

Che fine ha fatto Dario Bellezza?

Mi pare che tra le nuove (sempre più numerose) schiere di poeti italiani, il nome di Dario Bellezza circoli poco, troppo poco. Se ciò è vero, quali sono le ragioni di una rimozione che appare quasi coatta?

A diverse gradazioni generazionali: se Sereni (più di Caproni) trova sempre zelanti discepoli, se le quotazioni di Giudici (forse un po’ in calo) si mantengono, mi pare, ad un livello discreto, se il trionfo di Luzi ed il recupero (auspicabilissimo) di Cattafi sembrano tendenze recenti quanto persistenti, la totale assenza di riferimenti a Bellezza è forse un sintomo indicatore del gusto (a metà tra estetico ed etico) dei nuovi letterati italiani.

Certo, dai nomi citati lo separa una generazione – e si dirà che occorre dare tempo al tempo. Ma forse non è così facile. Proviamo a vedere.

Da un lato, gioca a sfavore di questo poeta – comunque unico nel panorama del secondo Novecento italiano – «un eccesso di produttività», dilapidante quanto indicativo del suo costume mentale. Poi, ancora, quella che Giorgio Manacorda ha ben definito come «una sorta di retorica dei propri temi negativi» (La poesia italiana oggi. Un’antologia critica, Roma 2004).

Un poeta, Bellezza, non immune da se stesso, da quanto ha concesso, di volta in volta, alla sciattezza, alla trivialità, a una limpidezza di pronuncia troppo appagata (anche nei temi: karma omosessuale, esibizionismo, suicidi, morte) per non essere poi dileggiata. La cifra di questo autore, che ha messo in scena continuamente il suo «Io», esponendolo pasolianamente con l’impudicizia di chi forse conserva troppo pudore, si gioca nello sforzo di auto-rappresentarsi, fino a convincersi di abitare, per qualche tempo, un’altra identità (prendendo in prestito abiti da poète maudit, da decadente fin de siècle o toni confidenziali da poeta latino poco importa). Detto questo, che non è poco, quello che resta è comunque uno dei poeti più notevoli e ricchi d’inventiva dell’ultima parte del nostro Novecento. Quando non cade nelle pastoie sopra elencante, o quando, semplicemente, l’urgenza di comunicare incontra senza diaframmi il suo raffinato orecchio musicale, siamo di fronte a un grande poeta. E allora? Anche nei suoi episodi (momenti) migliori, Bellezza è quanto di più lontano possa risultare seducente agli occhi di un aspirante versificatore di oggi (mettiamo sui venti, trent’anni). La sua autoreferenzialità maniaca risulta oscena, troppo spudorata, in una parola: imbarazzante. Non può, questo poeta, essere preso del tutto sul serio. Non può esserlo dai tanti puristi che hanno un’idea serialmente “seria” della poesia. Ah, il viaggio creaturale di Luzi, ah, il rigore asciutto di Sereni! Che posto può trovare un poeta come Bellezza, con tali compagni di viaggio?

Si leggano da Proclama sul fascino, sua ultima (bellissima) e di poco postuma raccolta del 1996, questi versi di Congedo:

 

I critici ostili li ho amati invano.
Ora il buddismo me li tiene lontani.
Dio mi assolva i peccati letterari.
Quelli sessuali non sono né tali
né osceni reati da prigione, lager
o manicomio. Se sono un expoeta è
solo colpa mia. I critici li perdono.

 

Non vedo ironia se non nel secondo verso. Il resto è il congedo di un grande teatrante, di chi, portando in scena una maschera sempre diversa (e infondo sempre uguale), ha finito col sapersi vedere e leggere nei suoi gesti scenici. Il paradosso, semmai, è che l’abito del poeta venga dismesso con la morte. E senza il trionfo (postumo) della gloria.

Alex Caselli

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