Mariano-Russo-fotografia

Dire amaro non rende, è orrido, da voltastomaco. Ho confuso i barattoli, sarà stata l’agitazione del momento; neanche il tempo di sorseggiare, che  entrambe le tazzine son finite di nuovo sul tavolo, quasi ribaltate. Ho ancora il volto contratto in una smorfia grottesca; la stessa di due giorni fa. In fondo, il concetto è quello: la mia vita è stata completamente stravolta, come questo caffè, dove invece dello zucchero c’è il sale.

Due giorni di confusione, rabbia, tristezza; mi sono chiuso in me stesso, in un inconcludente silenzio paranoico, a pensare e ripensare, senza venire a capo di niente. Finché stamattina, dopo l’ennesima notte insonne, me la son trovata qui; ha questo vizio di piombarmi in casa senza preavviso, fa parte della sua smania di avere tutto sotto controllo. Non deve essere stato un bello spettacolo vedermi appena sveglio: ancora assonnato, occhiaie, barba sfatta. Mi ha guardato con disappunto, mentre io son rimasto fermo  davanti alla porta con la faccia stralunata.

Si è accomodata senza aspettare che la facessi entrare, con i suoi soliti modi da prima donna, sempre impeccabile: il rossetto, la messa in piega senza un capello fuori posto, il foulard all’ultima moda, la borsa firmata. Può permettersi tutto, lei. Ha comprato anche me, in effetti. Ma non sa ancora che sta per perdermi, se non mi ha già perso.

La osservo di sottocchio, mentre rifaccio il caffè. Non si accorge di essere vista, si  guarda intorno e con aria perplessa scruta l’angusto angolo cottura del mio monolocale; starà notando i piatti accumulati e le fughe annerite delle piastrelle. Come siamo diversi noi due! Io son così  insicuro e adesso so anche il perché, o forse no, magari quello che ho scoperto non c’entra nulla con il mio modo di essere. Lei, invece, ordinata, razionale; appare così piena di sé, mette distanza, mi trasmette un forte senso di inadeguatezza. Un inadeguato, ecco, è così che mi sento, oggi come ieri e questo grazie a lei. Fanculo. Colpa sua se sono un fallito, se a ventotto anni non ho ancora un lavoro stabile e vivo tra queste quattro mura, in una palazzina fatiscente. Me ne sono andato di casa in fretta e furia: dovevo fuggire  da quel suo sguardo freddo ed impersonale, dall’apatica assenza di affetto e dall’insidioso vuoto inquietante che, credo, mi porterò sempre dietro.

L’aroma del caffè si sprigiona dalla mia vecchia, rumorosa Bialetti. Spengo il fornello e per qualche istante gli ultimi scoppiettanti bollori fischiettano all’unisono con il turbinio dei miei pensieri. Verso la bevanda ancora fumante nelle tazzine, dove stavolta, per non sbagliare, ho già messo lo zucchero.

Lei, intanto, fa una telefonata e, incurante del fatto che il caffè sia pronto, si allontana, presa dalla sua conversazione. Donna d’affari, la signora in carriera, che è anche moglie e madre. Madre? Oh, no. Ho sbagliato. Errore dovuto all’abitudine. Ma tu non sei mia madre, cara mamma! Oh, altro errore! Come dovrei chiamarti d’ora in poi? Signora Irene? Per ventotto anni ti ho chiamata mamma e ora fa strano doverti appellare in altro modo. Ma io non sono tuo figlio!  Ho creduto di esserlo fino a poco fa, pensa un po’. Che scemo, eh?

Poi la doccia fredda, un getto improvviso di  pungenti lame ghiacciate, un fiume di scomode verità, che mi hanno colpito a raffica, facendomi precipitare nell’ignoto; perché adesso non ho più nessuna certezza.

«Tu che sei stato adottato, che mi consigli, Michele?», mi ha chiesto l’altro ieri Giuliana.

Ho smesso di colpo di bere la birra che mi aveva offerto poco prima  Gianni, suo marito, nonché mio cugino.

L’ho guardata stupito: «Come, scusa?», è l’unica cosa che le sono riuscito a dire.

Intanto, Gianni  le faceva segno di tacere, ma lei aveva già detto quanto basta: «No, è che prima di fare un passo del genere, vorrei sapere cosa si prova stando dall’altra parte. Non deve essere stato facile per te crescere con i tuoi genitori, sapendo che non sono quelli naturali, giusto? ».

Son restato in silenzio per una manciata di interminabili secondi. Giuliana è stata linciata prima dallo sguardo indignato del marito, poi dalle sue parole arrabbiate: « Sei sempre la solita! I fatti tuoi non te li sai fare, eh?». Il mio sgomento le ha quindi fatto realizzare il tutto. Ha farfugliato qualcosa di incomprensibile e si è ritirata in un’altra camera. Siamo rimasti io e Gianni, cugino, ma anche compagno di scorribande infantili e di tante avventure. Non lo vedevo da tempo. Da quando si è sposato, due anni fa, si è trasferito in un’altra città e torna qui poche volte all’anno. Sta attraversando una fase difficile con Giuliana, me ne aveva già parlato mesi fa. Volevano avere un figlio, ma dopo numerosi tentativi andati a vuoto, hanno fatto degli approfondimenti ed è venuta fuori l’infertilità di Gianni. Un brutto colpo per entrambi, uno strappo improvviso alla trama compatta della loro vita di coppia, finché i brandelli di stoffa sono stati in qualche modo ricuciti e a poco alla volta la rabbia e lo sconforto hanno ceduto il posto alla ferma intenzione del non darsi per vinti.  Dopo essersi addentrati nel varco dei metodi di procreazione artificiale, da pochi giorni stanno pensando all’adozione. Così, zia Giulia, la madre di Gianni, ha raccontato loro la storia di sua sorella minore, che a soli ventisei anni era stata privata dell’utero, asportatole per delle impreviste complicazioni, durante un intervento di routine. La storia di Irene, praticamente; la storia della mia madre adottiva, che ha comunque realizzato il sogno di avere un figlio: eccomi, prelevato da chissà dove, figlio di chissà chi. Il segreto di famiglia è stato così violato dopo tanti anni, complice la mancata raccomandazione di non dir nulla a me, ignaro di tutto. E il mondo mi è crollato  addosso.

«Michele, mi dispiace, non avresti dovuto saperlo così, anzi, non avresti dovuto saperlo proprio!», mi ha detto Gianni. Era terribilmente imbarazzato, l’aria contrita. Son stato lì a guardarlo per un po’, avrei voluto fargli tante domande, ma cosa avrebbe potuto dirmi? Mi sono alzato di scatto, me ne sono andato senza nemmeno salutarlo; non che ce l’avessi con lui, ma mi è sembrato così sciocco starmene lì a sentire scuse e giustificazioni, senza però capirci niente di come siano andate veramente le cose, del perché non mi sia mai stata detta la verità. Solo la signora Irene potrà darmi le dovute spiegazioni.

Dopo infiniti ringraziamenti e frasi di circostanza, chiude finalmente la conversazione telefonica e si avvicina al tavolo. Tentenna un pochino prima di assaggiare il caffè, starà pensando al sapore amaro di prima. Restiamo per un po’ in silenzio, senza nemmeno bere. Non che fossimo mai stati dei chiacchieroni noi due, figuriamoci adesso che devo valutare bene cosa dirle. Riorganizzo a fatica i miei confusi pensieri,  bisogna misurare bene le parole, devo cercare di essere diretto e sicuro. Sto ancora valutando come procedere, ma è prima lei a parlare:

«Ero al telefono per fissarti un colloquio. La settimana scorsa ho mandato il tuo curriculum a un’azienda dove cercano un tecnico nel settore informatico. La dirige un cliente di tuo padre, così ti abbiamo fatto una buona presentazione».

Mio padre? Eh, anche con lui cambia tutto: sarà perché non è il mio vero padre che non mi ha mai mostrato grande considerazione? O forse per il suo essere sempre così impegnato per lavoro? Fatto sta che il nostro rapporto non è mai stato dei migliori.

«Allora, che ne pensi?», la mia madre adottiva mi sollecita a risponderle.

«E che devo pensare? Ti stai dando da fare per alleggerirti la coscienza?», inveisco.

Non mi risponde. Resta sorpresa da questa mia inaspettata reazione. Non le ho mai contraddetto niente in tutti questi anni. Si starà chiedendo cosa mi stia passando per la testa. Magari attendeva i miei ossequi e ringraziamenti. E invece no. Ho voglia di vomitarle addosso tutto il marcio che da due giorni si sta impastando nel mio stomaco. Ma le parole non mi escono.

Lei si alza. Indossa il soprabito, mi guarda risoluta ed esclama:

«Michele, che hai? Sei nervoso? Ne riparliamo un’altra volta, allora» e fa per andarsene.

«Non sono nervoso!», sbotto battendo il pugno sul  tavolo.

Non mi risponde, ma fa un’espressione di eloquente dissenso, come a dire: Ah no?

«Smettila di guardarmi con quest’aria da prima donna! Tu non sei niente per me, niente! Hai capito?», le urlo.

Altro che parole dosate e discorsi organizzati, alla fine ha prevalso la rabbia. Lei non mi risponde, incassa il colpo e per un attimo perde quell’aura altera che la contraddistingue, i lineamenti le si ammorbidiscono, gli occhi s’inumidiscono. S’intristisce, poi si agita. Gesticola frettolosa, farfuglia frasi inconcludenti, quindi fa uno scatto verso la porta d’uscita, afferra con velocità la borsa, ma la fa cadere. Portaocchiali, rossetto e fazzoletti si riversano così per terra; anche un foderino plastificato, contenente foto e foglietti, fa la stessa fine. Mi chino per aiutarla a raccogliere gli oggetti, nonostante lei mi stia invitando a lasciar stare. Non la ascolto e mi soffermo su quel foderino da cui sono usciti alcuni disegni di quando ero bambino: fiori, alberi, case, una donna sorridente, la scritta dai caratteri ancora incerti “mamma ti voglio bene”. Tra i fogli fuoriescono poi alcune vecchie foto: io da piccolo, io e lei abbracciati. Guardo e riguardo queste immagini, mi sento confuso, non so più cosa pensare. La mia mente, sollecitata dai ricordi sprigionati dalle foto, proietta in automatico la sequenza del mio vissuto con lei. Mi rivedo bambino, intimorito da una madre severa e autoritaria, ma, devo ammetterlo, sempre presente, nella quotidianità, come nei momenti più importanti.

La osservo adesso, mentre sta riprendendo in fretta e furia le sue cose, le infila di nuovo nella borsa, vuole andarsene. Per la prima volta, mi sembra fragile, libera da quella pesante armatura in cui ha tentato di trovare rifugio. Comincio a realizzare che questo segreto portato avanti per anni deve averla condizionata più di quanto lei stessa possa pensare.

Non deve essere stato facile convivere con la scelta di adottarmi senza svelarmi nulla. Mi chiedo e richiedo: perché non dirmelo? Ma è una domanda che per adesso voglio resti muta, la congelo nella mente, insieme a tutti gli altri pensieri.

Lei, intanto, apre la porta e sta per uscire.

«Aspetta!», la esorto. Si volta, l’espressione non più agitata, ma di nuovo malinconica. Mi guarda senza dire nulla, nemmeno io parlo. Restiamo così, sospesi in un’ambigua dimensione temporale, squarciata dai ricordi di ieri, le domande irrisolte di oggi, le insidiose incertezze del domani.

Intorno a noi, il mio spazio di sempre, ma sembra tutto così diverso, non so, avverto come la sensazione di trovarmi in un altro posto. Il divano letto disfatto, felpe e t-shirt accumulate sulla poltrona, oggetti sparsi un po’ ovunque; i quadri, il tavolo, le sedie; tutto mi appare meno familiare. Sarà per questa luce mattutina, un po’ fioca, quasi evanescente; irrompe dall’unica piccola finestra della casa, s’insinua tra le fessure della persiana e avvolge tutto nell’irrealtà della sua aura diafana e cristallina. Che percezioni strane: inquietanti emozioni visionarie. Avverto d’un tratto tutta la stanchezza fisica e mentale di questi ultimi giorni; mi lascio andare, smetto di dominarmi: sono il figlio bisognoso di affetto, il bambino ormai cresciuto, voluto e ottenuto dalla signora Irene. Mi sta guardando con un’espressione interrogativa.  Mi troverà teso, ho la fronte corrucciata, la bocca irrigidita.

«Aspetta», le ripeto, mentre distendo il volto e abbozzo un timido sorriso. «Non te ne andare, finiamo di bere il caffè, mamma ».

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