Esercizi di geometria non euclidea

Questa volta abbiamo deciso di fare un’operazione un po’ diversa, infatti, il racconto che segue non è di uno dei nostri autori ma di un ‘aspirante tale’ di cui abbiamo letto il manoscritto che, naturalmente, ci è piaciuto, e che si è reso disponibile a donarci qualche racconto per la nostra Rubrica… Ora diteci la vostra opinione!


Marco Aragno

L’infinito, quello divenne il mio cruccio. Lo cercavo nei posti più stipati della casa.  Sotto i letti, in mezzo alle lenzuola, ai piedi del pino. Più limitato era lo spazio più si faceva grande l’universo.

Credei di trovarlo un giorno, infilando la testa in un buco come uno struzzo. Al posto di una zolla di terra, però, mi ero scelto una di quelle vecchie lavatrici difettose che funziona a forza di calci, e che mio padre, steso come un meccanico sotto la carcassa di acciaio, teneva in vita ringhiando bestemmie con un cacciavite fra i denti.

Quando non era guasta, potevo farla un po’  mia, dividerla con i lavaggi del bucato. Seduto a cavalcioni, fissavo la mia faccia deformata dall’oblo di vetro, poi aprivo la porticina e infilavo la testa nel cestello. Fra quelle pareti bucherellate, con l’odore di detersivo e lavanda che pungeva le narici, mi sentivo un astronauta scafandrato nella plancia di comando di un astronave. “Ok, si parte per la missione”, gridavo nell’interfono con un’eco metallica. “Allacciate le cinture, viaggeremo alla velocità della luce”. Facendo rotolare il cestello con le mani, raggiungevo accelerazioni supersoniche. Un giorno allunavo sulle pianure infuocate di Marte, un altro fra gli anelli ghiacciati di Saturno, un altro ancora mi spingevo oltre Plutone, ai confini del sistema solare. Laddove mamma infilava mutande e calzini io inventavo pianeti e galassie.

“Che significa infinito?”, chiesi a  mamma estraendo la testa dall’oblo e sospendendo la mia missione interplanetaria. Seguì una risposta impacciata: “Che non finisce, che puoi andare oltre senza arrivare ad un punto”. Era difficile immaginare che il capitano dell’Enterprise ripulisse i bicchieri con lo strofinaccio mentre rispondeva alle domande dell’ equipaggio. Ma io ascoltai lo stesso, anche se il concetto di infinito mi era estraneo, poiché, secondo la mia geometria, tutto era circoscritto, congiungibile.

“Non capisco…”, ammisi.

A quel punto mamma roteò gli occhi in alto, come se cercasse di afferrare nell’aria parole più semplici. Poi, di fronte ai vuoti del suo vocabolario, depose le armi: “Non so come spiegartelo, Marcu’, prova a chiedere a tuo padre…”.

Già, papà era il parafulmine delle domande difficili. “Perché piove?”, “perché viviamo?”, “perché Dio a volte è cattivo e a volte buono?”. Gli riversavo addosso il mondo intero. Dall’astronomia alla politica, passando per la teologia e la fisica. Quando non soffocava sotto la valanga dei miei punti interrogativi, fronteggiava il mio assalto con le armi del sapere. Finché non trovavo il punto debole, il “non lo so”, il vuoto da riempire con la fantasia. Era una sfida, la mia. Lui stava dalla parte dei giornali, dell’enciclopedie, dei documentari alla tv. Io dalla parte dell’immaginazione.

“Ok, Mamma. Aspettiamo papà”. Ficcai di nuovo la testa nel cestello e lo feci ruotare all’impazzata finché non persi il senso dell’orientamento. I fori che tempestavano l’acciaio erano costellazioni, stelle che mi sfrecciavano davanti a velocità incalcolabili. Non mi restava che pazientare, dunque. Avrei serbato la mia domanda di ritorno da Sirio o da Alpha Centauri. E lo avrei fatto altre mille volte in quegli anni, esplorando l’infinito a modo mio.

Finché, un giorno, la testa divenne più grande di quella di uno struzzo. Tanto che dovetti porre fine alle mie escursioni interstellari, lasciando l’astronave a galleggiare senza comando nello spazio inesplorato.

Marco Aragno

Collana Transfert

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One response

  1. A volte lasciare un commento è davvero difficile, soprattutto quando si legge un racconto così bello,ci si sente inadeguati perché le parole scritte hanno una loro logica.Capita di leggere solo per giungere alla fine di un racconto,ma non è questo il caso,questo racconto si legge con empatia,perché fa affiorare emozioni che si credevano perse con i giochi della nostra fanciullezza.Ci fa provare quel senso atemporale che è proprio dell’infinito.

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