Sangue | Il racconto

Sangue-racconto

Lenny è venuto a trovarmi ieri tutto incazzato dicendo che gli stanno sulle palle i colleghi che danno per scontato le cose.

Non è così che si porta avanti un’azienda!, dice. E devo dire, lo capisco. C’è stato un tempo in cui anche a me facevano specie, per esempio, quelli che quando ti bussano alla porta, e tu gli domandi, Chi è, anziché risponderti dicendo il proprio nome, ti rispondono, Io!, manco ci fossi tu soltanto e loro sulla faccia della Terra; ed è scontato quindi che stando tu da questa parte, non ci possono essere che loro dall’altra.

Certe saggezze si capiscono solo da pazzi. Lo comprendo soltanto oggi; lo vedo soltanto adesso che non so come abbia potuto scampare alla morte dopo quello che ho fatto; dopo i tagli che mi sono fatta, il sangue che ho perso; dopo che il destino mi aveva fatto vivere quello che ho vissuto perdendo mio figlio Jimmy nell’incidente, strappandomi all’improvviso tutta quanta la supponenza. Per cui tutte le solite domande sul perché si facciano le cose, sul perché si commetta ogni singola azione in questa cazzo di vita, secondo me, trovano ormai risposta in un’unica frase obbligata che è “Per niente”.

Perché si va dal niente al niente; secondo me per inesorabile logica. Senza risposta.

Facevo l’attrice. Avevo un’ottima memoria, sapevo il fatto mio, sì, sapevo il fatto mio. Avevo fiducia nelle persone, le amavo, odiavo i soprusi, difendevo i bambini, guardavo ai tramonti con aria nostalgica. Ero insomma una cazzo di persona comune; mi piaceva il rumore della pioggia sui tetti, il gocciolare delle grondaie, il profumo delle cose al forno; che so, l’odore della benzina, quello delle cose bruciacchiate. Organizzavo cenette a lume di candela per Lenny quando capitava. Lui era contento.

Si faceva poi all’amore nudi davanti al camino; si discuteva… Mentre adesso non più. Adesso mi piace il sangue. Gliel’ho detto, Lenny mi piace il sangue!
Sono i nervi, fa lui. In fondo non hai niente. Solo i nervi troppo tirati, come avessi accordato troppo stretto il tuo violino. A me è piaciuta tanto come immagine. Ti amo Lenny!, gli ho detto. Lui mi abbraccia e mi stringe forte.
Abbiamo tutti dentro un violino, dice. Io sospiro. Tu ce l’hai che adesso è male accordato, fa lui, Hai solo tirato troppo un po’ troppo le corde. Sai quando si dice tirare troppo la corda? Oh, sì, Lenny!, dico io ammirandolo, Sì! Ed è per questo, fa lui, Che devi startene un po’ chiusa, soltanto per un po’ di tempo, un po’ chiusa. Ho letto che può essere utile, ha detto, Trovare corrispondenze negli oggetti; riversarci le proprie pene. L’ho letto su internet. Me ne fotto se il dottor Marley non sarà d’accordo!, ha detto, Te ne comprerò uno al più presto e te lo mando!

Uno cosa?, ho detto io distratta che pensavo a Jimmy.
Ma un violino!, ha detto Lenny, Cristo, Mary, parliamo di un violino, o cosa?! Oh, sì!, ho fatto io. E ho scrollato le spalle. Te ne manderò uno, ha detto lui, Per tutta la prossima settimana ho da concludere un affare a Boston. Non potrò portartelo di persona. Ma te lo manderò domani stesso, stanne certa; farò in modo che tu lo riceva, a costo di corrompere l’intero ospedale. Ma quando te lo consegneranno, fa’ come t’ho detto, dice. Proviamoci Mary, dice, Trasferiscici la tua condizione interiore. Poi pian piano, vedrai, senza fretta, allenteremo le sue corde, e così di pari passo si allenterà anche la tua tensione emotiva, fino a guarigione. L’ho letta, è una cura efficace. Al diavolo il dottor Marley!… Proviamoci!

Sì, Lenny, sì… come vuoi tu, Lenny, ho detto.

Ho una stanza privata alla clinica San Thomas. Una bella finestra che guarda sul lago. Il lago ancora dormiva. Il violino me l’ha portato stamattina alle sei l’infermiere Robert. Robert ha ghignato; è entrato, ha chiuso a chiave la porta; ha posato il violino sul tavolo.

Io ero distesa sul letto; Che fai Robert?, gli ho detto, Ti prego Robert… no!…
Zitta!, fa lui. Ha voluto montarmi sopra; mi ha sfilato le mutandine. Ha fatto quello che doveva fare come tutte le altre volte. Poi è andato via così com’era entrato, col carrello pieno zeppo di flebo che tintinnavano.
All’improvviso è ritornato; Ah, le compresse, bambola!, ha detto, Prendile!
Di nuovo il suo ghigno. Se l’era scordate. Con le compresse mi ha passato un bicchiere d’acqua. Ha atteso che le ingoiassi per essere certo.
Io ho mandato giù le mie due compresse della mattina, che, dicono, dovrebbero farmi stare calma, ma che invece danno soltanto sonno. Ma stare calmi, dico io, non è dormire.

Stavolta però non sono stata male. Ho seguito i consigli di Lenny, e non ho pianto. Ho trasferito il mio dolore sul violino. Gli ho accarezzato le corde; dio come erano tese! Aveva ragione Lenny, troppo tese. Ho preso l’archetto, ci ho messo sopra la pece; ho dovuto sfregarcela a lungo perché il violino suonasse. Ho dovuto provare e riprovare; zigava soltanto, come un coniglio ferito. Poi finalmente ha suonato. Ho ricordato le parole di Lenny, Trasferiscici il tuo dolore!… Il tuo dolore!… E così ho provato. Ma ho scoperto che il dolore si trasferisce da un corpo all’altro come il calore, proprio come il calore, sì; ed io ero più fredda. Così ho preso io il dolore del violino. Mi sono ritrovata a passarmi la pece sul braccio. Il mio braccio adesso era un arco; l’ho sfregato tante volte sulle corde del violino; abbiamo suonato assieme, io e lui.

Ma poi il polso si è stracciato. Le vene mi si sono aperte ed è colato giù sangue, tanto sangue… E l’ho lasciato scorrere. E adesso è tanto che sto qui, che il sangue cola; tanto tempo che penso a Lenny, che ha ragione a dire che certuni sono scontati. E, devo dire, lo capisco, sì, lo capisco. Tanto tempo che penso anche al mio Jimmy. Il sangue intanto ha bagnato di rosso le corde del violino, il violino stesso, le lenzuola.

Quando hanno aperto la porta della mia stanza, qualcuno ha gridato che c’era troppo sangue. Ma so che non morirò. L’avevo detto che mi piace. Mi piace il sangue, Lenny!, gli avevo detto. Lenny non ne capiva il perché.
Grazie a dio ora scorre. Non mi usciva più dal solito posto come ogni mese. Ero terrorizzata. Cristo, meno male che adesso, seppure dal braccio, esce!
Non ne potevo più di temere di essere rimasta incinta di quel bastardo di Robert.

 Sergio Saggese

Testo inedito scritto da Sergio Saggese, autore di Codamozza, per la nostra rubrica ‘Visioni mondaniche‘, dedicata ai racconti degli autori della collana di narrativa Transfert.

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