I videogame e il futuro della comunicazione culturale

I videogame possono essere uno strumento di marketing culturale utile per portare pubblico nuovo all’interno dei musei? Ne parliamo con Fabio Viola.

Com’è nata questa cosa con il museo Archeologico di Napoli? Cioè, è abbastanza particolare che un museo, del sud fra l’altro, si apra a una cosa del genere: il sud dell’ Italia è forse il mondo più chiuso verso questo genere di novità.

F: È stato particolare perché noi eravamo appena nati. Il videogioco è uscito nel 2017. Considerando il ciclo di produzione di un videogioco – mediamente sono sette/otto mesi – lo sviluppo è partito ad agosto 2016: eravamo nati credo un mese prima. Ci chiamano loro, avevamo appena vinto questo bando. “Tuo museo” nasce per un motivo, perché abbiamo vinto un bando chiamato “Innovazione culturale” di fondazione Cariba, altrimenti “Tuo Museo” non sarebbe mai nato, nel senso che io gestisco altre società che utilizzano i videogiochi, ma in ambiti completamente diversi, e così tutte le persone che oggi stanno lavorando in “Tuo Museo”. Quindi è stata veramente la scintilla per metterci insieme attorno ad un tema particolare. Eravamo appena nati, io stavo iniziando a partecipare ad alcune conferenze, avevo scritto i primi articoli. Quindi stava iniziando a circolare, ma non esistevano esempi concreti. Non che videogiochi e musei non siano mai esistiti in senso assoluto: esiste un’ampia letteratura di giochi per la didattica museale, giochi fisici, ma anche digitali. Però quello che noi volevamo provare a fare era ribaltare la logica: che i musei si facessero publisher di giochi in grado, autonomamente, di stare sul mercato, di piacere a un pubblico non per forza coincidente con quello che visita il museo. Provare ad andare a intercettare nuove fasce di pubblico, magari persone che non conoscono né il museo, né Napoli – per il caso specifico -, né l’Italia, ma che lo trovano sugli Store: così come scarico Fortnite -piuttosto che Candy Crush – decido di scaricare questo gioco, perché sono incuriosito dalla trama, dalla grafica, dalla storia, e quant’altro. Il museo, attraverso il direttore Paolo Giulierini e il professor Ludovico Solima, aveva inserito nel piano strategico la dicitura che, tra le tante attività da svolgere nel quinquennio, ci sarebbe stata anche quella di un gioco, non meglio specificato.

G: Quindi l’idea è partita da loro?

F: Sì, assolutamente. Nel senso che c’era il gioco, poi il gioco si può declinare andare in 10000 modi: può essere una caccia al tesoro, può essere un gioco fisico, eccetera. Abbiamo iniziato a svolgere una serie di riunioni, era l’estate del 2016. Al termine di queste riunioni è venuto fuori un brief, quindi almeno quali erano gli obiettivi che il museo voleva raggiungere: erano molto cambiati rispetto alle prime riunioni, perché si era capito che il gaming e, in generale, tutto ciò che è digitale, ha molto senso se lo si dimensiona almeno in una scala europea. Non ha senso per me – tranne casi specifici, progetti specifici – utilizzare il digitale per andare a intercettare un pubblico che già hai, che è già entrato, perché è un depotenziamento dello strumento. L’altra cosa su cui ci siamo trovati tutti d’accordo – ed è anche uno dei motivi fondanti di “Tuo Museo” – è che noi vogliamo realizzare prodotti che, innanzitutto, devono coinvolgere le persone. Poi una volta che le persone sono coinvolte proviamo a trasferire un po’ di contenuto, anche culturale in questo caso. Nel videogioco ci sono alcune opere, ma il gioco non parte nel museo, il museo nella scheda del nome del gioco non viene richiamato: poi ci sarà, si andrà, ma solo quando il giocatore inizia ad essere coinvolto.

G: Quindi lo scopo principale è l’engagement?

F: Sì, era raggiungere nuovi pubblici, che il museo non sarebbe mai stato in grado di raggiungere attraverso altre forme di comunicazione. Coinvolgere i pubblici, emozionare i pubblici, quindi creare una situazione emotiva. “Father and Son” è un’esperienza sostanzialmente di tipo emotivo: alla fine è un libro interattivo, un film interattivo, più che un gioco guidato da meccaniche dove si vince o si perde, con classifiche e cose di questo tipo. E quindi generare, innanzitutto, un posizionamento diverso per il museo, anche come ambito di produzione, ambito tecnologico. Quell’anno il MANN è stato eletto museo dell’anno da Artribune, quest’anno Artribune ha scelto “Pass for Future” come progetto culturale digitale dell’anno. E quindi, attraverso una serie di articoli di stampa, di paper, di keystudies a livello MIBAC, a livello europeo, il MANN ha iniziato a riposizionarsi: poi da lì sono partite tutta una serie di altre cose. Uno degli obiettivi è quello di rendere il museo accessibile a chi fisicamente non è nel museo: un ulteriore mezzo per creare accessibilità. È stato un modo, anche interessante, il gioco disponibile in sette lingue, per aprirsi la strada in territori dove sarebbero arrivate delle mostre: ad esempio la Cina. Si è deciso di puntare molto sulla Cina, i giochi in cinese, sono state fatte una serie di azioni di comunicazione perché, l’anno dopo, il MANN avrebbe prodotto una mostra in Cina. Il videogioco è stato il primo elemento di contatto con il mondo dell’Italia, ed era anche presente negli allestimenti di questa mostra. Le persone hanno prima conosciuto il videogioco, è stato più facile. Una delle cose che ho imparato da questa avventura: noi tendiamo ad essere autoreferenziali, ma il giocatore del Bangladesh, dell’India, della Thailandia, non solo non sa nulla del MANN, ma non sa nulla dei Romani, non sa neanche fisicamente dove si trova l’Italia, non sa che l’Italia è nel Mediterraneo. E quindi, queste operazioni possono servire a creare una prima cornice, dentro la quale va un’attività più verticale, gestita direttamente dal museo.

G: Quindi diventa un potentissimo strumento di marketing…

F: In questo caso è stato per loro anche un forte strumento di marketing. Ha un costo, che se andassimo  a suddividere il costo dell’operazione per il numero dei giocatori, uscirebbe uno 0,00 di costo di coinvolgimento dell’utente. Anche perché rispetto ad un video, una brochure, il videogioco richiede per forza una partecipazione attiva. Quindi anche i conteggi sono di tipo diverso: il videogioco devi innanzitutto scaricarlo, quindi è un’azione attiva, non è un video che vedi in metropolitana dove magari sei distratto, non lo vedi tutto, eccetera. Il videogioco devi almeno averlo scaricato: poi noi abbiamo dei dati che è iniziato, poi c’è chi lo finisce, chi si ferma ad un certo punto.

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