La mostra di Thomas Struth: nature&politics al Mast di Bologna

Non lo so. Thomas Struth è un fotografo che non riesce ad appassionarmi. Ammiro la sua grande capacità compositiva e la sua grande tecnica fotografica, ma è come se si creasse continuamente una distanza fra me e le sue immagini. Non mi rapisce, non mi coinvolge, è come se rimanessi fuori da quelle scene troppo perfettamente composte: e forse è proprio questo eccesso di perfezione che non mi permette di trovare il mio spazio lì dentro.

La prima sensazione che ho avuto davanti alle sue immagini, selezionate da Urs Sthael per la nuova mostra del MAST, è stata quella di fastidio. Io non sopporto il disordine e qui invece impera il caos, una sorta di caos asettico, ma pur sempre casino rimane. Sono lavori un po’ distanti da quelli che forse conosciamo di questo fotografo (non so se avete mai visto le foto urbane, ad esempio, hanno sempre un rigore e un ordine impeccabile, anche se sembrano sempre delle città fantasma: Struth è capace di far sparire l’elemento umano anche da una città come Napoli in cui di solito questo elemento è straripante).

Invece in questa mostra è tutto caotico, le immagini, seppure tecnologiche, si avvicinano molto di più alle sue foto di paesaggi, ad esempio alla serie intitolata Picture from Paradise dove il groviglio della natura regna sovrano, eppure  Struth riesce ad inquadrare anche quello come se avesse detto ad ogni pianta dove mettersi e in che posizione. Un po’ come sembra fare con le foto di famiglia, apparentemente informali, ma sapientemente composte… forse pure troppo!

Con la tecnologia, soprattutto quella medico-chirurgica, è come se un po’ tutte queste ‘problematiche’ si ingigantissero e si concentrassero tutte insieme. La freddezza e l’asetticità dei macchinari, la confusione degli oggetti, i grovigli di cavi, i rivestimenti di plastica… davvero un gran casino che non da la possibilità allo sguardo di riposarsi e di posarsi su qualcosa. È come se davanti a noi ci si parasse un muro di cose a estranee e lontane.

Il problema non è la tecnologia in sé, ne abbiamo viste ormai a migliaia proprio qui al MAST di immagini tecnologiche, di artisti molto diversi tra di loro e, anche se forse le mostre non le ho viste tutte, devo dire che questa è la prima volta che ho questa sensazione di distanza. A me piace la foto industriale, tecnologica, indipendentemente dalla presenza umana o meno, ma qui c’è qualcosa che è proprio della poetica di Struth che rende la mostra un po’ inquietante. Ma forse è proprio questo il suo scopo, restituire un senso di inquietudine davanti al potere della tecnologia e di tutto quello che si nasconde dietro: quindi politica, commercio, denaro e quindi ancora potere. E la sua grande capacità sta nel riuscire a dare al caos un’armonia compositiva, un equilibrio incredibile apparentemente con molta nonchalance.

Mi è sembrata invece abbastanza scollegata e inutile la video installazione fatta al piano -1 che parla del rapporto maestro-allievo. Boh?! Si sarebbe potuta anche evitare…

Quindi non lo so, sono un po’ perplesso. Questa volta la mostra al MAST vince – perché comunque propone un grande artista di livello internazionale e le immagini tutte di grandissimo formato sono di forte impatto e di livello tecnico molto elevato -; ma, sinceramente non convince più di tanto.

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