In libreria "Vicolo dei Lavandai": dialogo fra Flaminio Gualdoni e Arnaldo Pomodoro

Ci sono principalmente due ragioni per le quali ho voluto pubblicare questo libro.

La prima è stata determinata da una contingenza: la chiusura degli spazi espositivi della Fondazione Pomodoro, in via Solari a Milano; la perdita, non solo per la città, ma per la cultura in generale, di un luogo che aveva un approccio intellettuale, nei confronti del rapporto attività-comunità, oggi ancora assai raro.

Così, mi è sembrato doveroso documentare in forma cartacea questo momento perché le parole di Arnaldo Pomodoro e di Flaminio Gualdoni possano ri-manere e diventare, per tutti, spunto di riflessione e di dibattito sulle potenzialità, ma anche sulle problematiche, con cui gli spazi espositivi contemporanei si devono confrontare.

La seconda riguarda il fascino che da sempre esercitano su di me i lavori di Arnaldo Pomodoro e l’interesse critico che ho nei confronti di questo grande protagonista dell’arte contemporanea.

Ma tutto ha inizio molto indietro nel tempo.

Negli anni ‘90 viaggiavo spesso alla scoperta del Montefeltro, partendo da Santarcangelo attraversavo la val Marecchia e mi inerpicavo sui vari colli che dominano la valle romagnola.

Una delle mie mete preferite era San Leo, il piccolo borgo che, con la sua imponente fortezza, miracolosamente in equilibrio in cima ad uno sperone di roccia, vigila sul territorio e riesce ancora a tenere a bada l’avanzata speculativa dell’uomo. Luogo di storie e di leggende dove, dal 1791 fino alla fine dei suoi giorni, fu tenuto prigioniero il conte di Cagliostro, uno dei più enigmatici avventurieri dell’età dei Lumi.

In una di queste mie esplorazioni in cerca di memoria e tradizioni, feci la scoperta delle opere di Arnaldo Pomodoro (che all’epoca, poco più che adolescente appena uscito da una formazione ‘classica’, a mala pena conoscevo): sculture sparse per il paese, ma quasi elementi essenziali del paesaggio, in un gioco di perfetta integrazione fra ‘monumenti temporanei’ e i luoghi circostanti.

Ho portato con me, in tutti questi anni, l’eco dell’urlo dell’anima di Cagliostro che squarciava il misero varco di luce della sua cella per esplodere nel vuoto. E non ho più trovato installazioni in grado di trafiggere la mia memoria a tal punto da segnare un punto di svolta così determinante nelle mie valutazioni estetiche.

Più che la memoria visiva delle opere, mi è rimasto il dialogo sussurrato fra esse e l’ambiente. Caratteristica che mi sembra costante in tutta l’opera (e forse anche nel pensiero) di Arnaldo Pomodoro. Un dialogo ininterrotto fra memoria, luoghi e arte. Un dialogo scritto a caratteri geroglifici nello spazio e nel tempo, una monumentale introspezione psicologica nella storia che coinvolge tutti i sensi.

In quel museo continuo in cui l’artista aveva trasformato il piccolo borgo di San Leo, ho passeggiato per la prima volta in cerca di letture e non sono riuscito a resistere alla tentazione di farlo con le mani, provando a decifrare ad occhi chiusi.

Ho continuato ad avvertire, negli anni successivi, ogni qualvolta mi trovassi di fronte alle sue opere, la netta sensazione di avere da sempre dentro di me quel codice, la chiave che mi permettesse di interpretare il discorso sull’esistenza che si era andato dipanando sotto le mie dita quella volta; ma è un codice che, se mi concentro nello sforzo di ricordare, non riesco a tradurre alla perfezione: devo pensare e comprendere direttamente in quella lingua arcaica – che appartiene forse ad un’altra vita, certo ad un’altra dimensione – per poter entrare perfettamente in sintonia con i messaggi che portano e custodiscono.

Vedo le sculture di Pomodoro come segni dell’uomo sparsi per il mondo, per guidare l’uomo orizzontalmente nello spazio, elementi di unione nelle distanze, e verticalmente nel tempo, moduli di trasmissione di un sapere e di una cultura millenaria che non muore, forte della materia di cui è composta, ma soprattutto della forza che l’alchimia della fusione di idea e gesto creativo porta con sé per sempre.

Questa ragnatela di tensioni diventa il filo sottile, ma elastico alle sollecitazioni di una realtà mutante, che avrebbe dovuto tenere insieme l’idea di Fondazione e spazio espositivo. Una realtà in continuo rapporto con l’esterno, non una struttura museale statica e conservativa, ma un vero e proprio laboratorio di cultura in grado di creare, con la società in cui è calato, una perfetta integrazione, per un continuo scambio di sollecitazioni e di energie che la portassero ad essere un solo paesaggio aperto.

Un esempio per tutti quei musei, spazi o luoghi che tanto vogliono fare “sistema arte” ma che in realtà ancora oggi non sono in grado di coinvolgere; e per tutti quei critici, curatori e intellettuali che rimangono arroccati nella loro torre eburnea e non riescono a condividere, non riescono a capire l’importanza di essere parte attiva di quella grande rete sociale che il mondo dell’arte e della cultura tutta deve sempre di più diventare, per poter finalmente avere la forza di non dover dipendere da aiuti dall’alto, per esistere.

Più che mai oggi la comunità avrebbe bisogno di esperienze come quella di via Solari, luoghi che richiedono certamente un grande impegno in termini di energie umane e di risorse economiche ma, che se gestiti con un sano e moderno approccio manageriale, possono riscattarsi dalla schiavitù del finanziamento pubblico e diventare essi stessi strumenti propulsori e finanziatori di novità, ricerca e sperimentazione.

L’auspicio è che la visione d’insieme che Arnaldo Pomodoro è riuscito ad avere in questi anni possa essere un esempio e un modello dal quale ripartire, perché si possa sempre di più vivere l’arte come un mondo fatto di stimoli, partecipazione e serio lavoro.

Gino Fienga

il volume Vicolo dei Lavandai. Dialogo con Arnaldo Pomodoro di Flaminio Gualdoni

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