(in)comunicabilità #2. Codici.
Non credo che sia sempre necessario davvero capire che cosa un’opera d’arte significhi. A volte basterebbe semplicemente disporsi a sentire, cercare l’empatia con l’espressione del significante, per non avere più la necessità di tradurre in parole quel significato sotteso.
L’arte contemporanea è una fabbrica di traduttori di codici impossibili che cercano di mettersi tra noi e lei, utilizzando spesso chiavi false, per decifrare messaggi che talvolta non esistono, aprendo porte di stanze sbagliate e vuote che cercano disperatamente di riempire con fragili suppellettili rubate qua e là, in giro per questa casa in cui prima o poi tutti entriamo: la critica.
Il voler a tutti i costi decifrare cosa l’artista avrebbe voluto comunicare, a volte ci fa perdere di vista il semplice e banale piacere della fruizione estetica: guardare, toccare, e godersi il senso della percezione dei sensi, la forza dell’equilibrio, l’energia che l’opera sprigiona e che invade il nostro spazio prossemico nostro malgrado.
Se la smettessimo di rincorrere, con l’accellerazione propria di questi tempi, parole e categorie, ricominceremmo a vivere diversamente (e forse con più lentezza) il nostro rapporto con il mondo dell’arte.