Corriere del Mezzogiorno

Dalla saga dell’aristocrazia delle famiglie di armatori, all’alacre produttività dei cantieri, all’audacia degli equipaggi.

Quella della marineria a vela della penisola sorrentina è una vera e propria epopea, un’epopea che avrebbe meritato un Omero chela raccontasse. E invece essa finora non è stata indagata, documentata e celebrata quanto sarebbe stato giusto. Né dai manuali scolastici e dai saggi degli storici né dalla narrativa o dal cinema. E infatti, almeno a quanto mi risulta (e, se sbaglio, fatemelo sapere), non è mai successo che un romanziere o un regista si sia dedicato a raccontare le straordinarie imprese dei velieri della nostra costiera, benché questi velieri (nel ‘700 tartane e feluche, nell’800 brigantini) per ben due secoli abbiano navigato su tutti i mari del mondo, competendo con le più accreditate marinerie forestiere, commerciando generi di ogni sorta e affrontando i pericoli più estremi. Ecco: a mio giudizio la loro epopea ha rappresentato una delle glorie del mezzogiorno e una vicenda esemplare che potremmo proporre ai giovani senza timore di valutazioni scettiche o polemiche, perché è stata vissuta in ogni suo aspetto all’insegna dell’intraprendenza, della tenacia e del coraggio. E allora consentitemi di dire che il volume curato da Massimo Maresca e Biagio Passaro, «La Marineria della Penisola Sorrentina e la cantieristica in legno da Marina d’Equa a Marina Grande» (volume che, nato come catalogo per la mostra che l’anno scorso si è tenuta a Sorrento, è stato presentato nei giorni scorsi alla Società di Storia Patria al Maschio Angioino) è una pubblicazione non solo piacevole e avvincente, ma utile, necessaria, anzi indispensabile.

Indispensabile perché provvede a ricostruire in maniera ampia, sistematica e dettagliata una vicenda che, mentre ci fa venire in mente le avventure su cui sognavamo da ragazzi, quelle descritte nei libri di Defoe, Stevenson o Conrad, esalta, (una volta tanto pienamente a ragione) il nostro mortificato orgoglio regionale. Perché in essa non c’è nulla che non risulti appassionante, grandioso, epico. A cominciar dalla saga degli armatori le cui grandi famiglie (i Cafiero, i Lauro, i Cacace, gli Starace, gli Astarita, per citar solo alcuni nomi) costituivano un’autentica aristocrazia imprenditoriale, accomunata sia dalla sapienza nell’intrecciare oculate alleanze matrimoniali e rapporti d’affari con i più potenti commercianti napoletani sia da una sorta di dinasticità, nel senso che in esse, come accadeva nelle famiglie degli imprenditori della Lega Anseatica – quelle a cui s’è ispirato Mann per creare i Buddenbrook – il potere e la competenza si trasferivano di padre in figlio e di figlio in nipote.

Per passare all’alacre ed efficientissima produttività dei cantieri di Alimuri e Marina di cassano dove per due secoli son stati varati a centinaia velieri così perfettamente belli che al solo ammirarli nelle illustrazioni di cui il libro è corredato non si può non restare a bocca aperta, E all’insuperata competenza di equipaggi e capitani (ammaestrati anno dopo anno nelle scuole nautiche di Meta, Carotto e Piano). E venir infine alla paziente audacia con cui gli equipaggi a ogni viaggio tornavano a sfidare la morte (sapete?,la sola Metanegli anni dal 1866 al1917 haperso in mare circa duecento uomini: quasi che nelle sue strade si fosse combattuta una guerra). Come si moriva? Oh, si moriva di «caduta» dagli alberi, di «colpo di mare», quando durante la

tempesta si era trascinati via dalla furia dei flutti, di malattia (soprattutto febbre gialla), e di morte collettiva per naufragio o «scomparizione» (di scomparizione si parlava se non si sapeva né quando né dove la nave fosse affondata). Ed emoziona pure il constatare quanto, a fronte di tali minacce, in costiera fosse intensa la devozione, una devozione attestata dalle polene di soggetto religioso (che erano ridipinte a ogni viaggio) e dagli struggenti ex-voto conservati nelle chiese.

E allora ce le immaginiamo, le donne di Meta in Santa Maria del Lauro, le donne di Sorrento in Sant’Antonino, le donne di Massa al vescovado, ce le immaginiamo inginocchiate di fronte all’altare, sul freddo pavimento di marmo o di maiolica: a implorare il ritorno dei loro cari. A implorarlo questo ritorno che una buona volta riscatti il loro cuore dall’indicibile strazio sofferto al momento della separazione: la separazione, lì, sul pontile, davanti al veliero in partenza.

Ecco: probabilmente era stato per non vivere un così atroce strazio chela ventenne Giuseppina Ruggieroaveva voluto seguir lo sposo sul brigantino che portava proprio il suo nome, «Giuseppina». Sperava in un bel viaggio Giuseppina, in una specie di viaggio di nozze. E invece insieme allo sposo e all’equipaggio era stata risucchiata dalle acque, Dove? Lo ignoriamo. L’unica cosa certa è che nell’ottobre del 1893 la nave si era mossa da Savannah, alla volta di Genova, Poi, non se n’è più saputo niente. Appunto, un caso di scomparizione.

Giovanna Mozzillo
© Tutti i diritti riservati. Il Corriere del Mezzogiorno 4 Luglio 2012

il volume La Marineria della Penisola Sorrentina di Massimo Maresca e Biagio Passaro

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