Luce - un racconto di Sergio Saggese

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Udito un CLICK ravvicinato, Asad alzò gli occhi dalla pagina e si ritrovò davanti un tizio con una macchina fotografica.

Studiava seduto per terra col libro di Chimica aperto sulle gambe. Lo chiuse e se lo piazzò a fianco.

Guardò oltre la sagoma grigia dello strano fotografo e scorse il suo amico Faraji ridacchiare.

Il tizio con l’obiettivo puntato si presentò come un fotoreporter di un giornale italiano. Gli aveva scattato una foto cogliendolo assorto nella lettura senza preavviso.

Si trattava dell’ennesimo servizio giornalistico sugli studenti africani costretti a recarsi all’interno del parcheggio dell’aeroporto per poter studiare sfruttando la luce dei lampioni pubblici.

In Africa più di 500 milioni di persone vivono senza elettricità. Il calar del sole significa vivere nel buio e l’alternativa sta nelle candele, ma le candele sono troppo fioche per poter leggere.

Gli studenti sono costretti a uscire dalle loro case e si dirigono, istintivamente, verso il luminoso aeroporto come i tafani verso le lampade.

Asad passava tutti i giorni a prendere Faraji con la sua mobylette.  Insieme raggiungevano l’aeroscalo e vi rimanevano a studiare dalle dieci di sera fino alle sei del mattino.

Quando non era possibile andare all’aeroporto di Niamey si recavano a studiare in una delle tante grotte di Massabielle di cui è letteralmente costellata l’Africa. Una di quelle grotte che sono l’esatta riproduzione di quella di Lourdes, con l’Immacolata Concezione nimbata di stelle splendenti che se ti ci mettevi bene sotto potevi rubare la luce che serviva a illuminare la pagina.

Lì era davvero un ottimo posto anche se lo studio a un certo punto, forse per suggestione, sembrava a mano a mano trasformarsi in preghiera. E chissà che non lo fosse davvero.

Le formule chimiche, pronunciate da Asad e Faraji, ad alta voce per essere meglio memorizzate, si mescolavano alle preci dei pellegrini e ne veniva fuori un curioso impasto di suoni imploranti.

La mobylette, la sua motoretta cinquanta di cilindrata, Asad se l’era comprata di seconda mano, dopo aver lavorato a lungo come facchino in una compagnia di trasporti, lavoro da cui era letteralmente scappato quando erano diventate decisamente troppe le turiste ricche e grasse che non mollavano mance se non dopo aver preteso e ottenuto anche altri generi di prestazioni.

Il ragazzo fissò la macchina fotografica, si vide specchiato sottosopra nell’obiettivo e strinse tristemente le palpebre.

Non gli andava di parlare, di essere intervistato. Ma se proprio avesse dovuto, avrebbe detto di sicuro della sua più grande paura, quella che gli cresceva dentro ogni giorno di più.

Gli avrebbe detto sicuramente della sua grande fifa per le pagine oscurate. Della sua paura per il buio.

Solo così, parlando della sua paura, avrebbe potuto  sperare che quel giornalista capisse e diffondesse quanto erano grandi, per quelli della sua generazione, il desiderio della luce e la necessità del sogno.

Un po’ del lustro dei lampioni Asad lo tratteneva forte con le palpebre, se lo faceva imbrigliare nelle ciglia e lo conservava per alimentare il lumicino della costanza che rischiava di morirgli dentro.

Avesse potuto, a quel giornalista avrebbe detto questo. Ma una cosa del genere non era affatto facile da spiegare.

Il reporter gli chiese di sorridere.

Asad fece di no con la testa. Poi gli indicò il suo amico, Faraji, senz’altro più accondiscendente, che ancora sghignazzava.

Glielo indicò come a dirgli: “Prendi quella del mio amico che è di sicuro una vera risata. Non la mia. Io finirei soltanto col mostrarti i denti, allargandoti una ferita più che un sorriso. Alla fine scatteresti la tua bella foto, una bella foto che ti farebbe vincere magari qualche premio, ma che verrebbe esposta in un museo troppo illuminato per permetterle di essere sincera”.

Con Faraji il reporter non ci provò nemmeno.

Troppo allegro, troppo luminoso. Non erano certo quelle col sorriso come il suo le foto che facevano vendere i giornali. Preferì dirottare la sua attenzione s’un altro gruppo di studenti. Colse con l’obiettivo uno di loro che se ne andava avanti e indietro mormorando roba di matematica e gli scattò una foto.

Un’altra foto la scattò a un secondo gruppo di studenti che consumavano rumorosamente del sorgo.

Asad ne approfittò per girarsi verso Faraji e chiedergli se  casomai si fosse dispiaciuto a doversene tornare a casa da solo.

Faraji divenne improvvisamente triste, alzò le spalle, guardò verso la mobylette.

«La prendi tu. Te la presto. Resto io a piedi» lo confortò Asad, spiegando subito che si sarebbe trattenuto nel parcheggio oltre la solita ora per vedersi con Boahinma, la sua ragazza, e che sarebbe rientrato con Ghedi.

Ghedi era un ciocòra, un “ragazzo della spazzatura”. Asad avrebbe chiesto a lui un passaggio sul ciombo, il camion della nettezza urbana pieno degli avanzi dell’aeroporto. L’aveva già fatto altre volte. Era tornato a casa con uno strano odore addosso. Certo non era profumo ma non era neanche lezzo. Sua sorella Chiku aveva sospettato che fosse andato con una di quelle prostitute che usavano buttarsi addosso litri di colonia per non lavarsi.

Faraji montò sul ciclomotore senza dire una parola. Salutò Asad alzando a malapena un braccio.

Asad lo guardò andar via e gli venne da piangere. Poi sedette sul marciapiede ad attendere Boahinma che alla fine non venne.

Dopo averla aspettata per ore, Asad, come previsto, prese il suo passaggio sul ciombo.

Col cielo addosso, piegato in due rincasò pensieroso e triste col libro sotto al braccio.

Sull’uscio, dopo aver marcatamente tirato su col naso un paio di volte, sua sorella Chiku sbuffò e lo guardò storto.

Sergio Saggese

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