Villa Arianna di Gennaro Chierchia

Villa Arianna di Gennaro ChierchiaSulla collina il cui nome è un rettile-predatore, Varano, c’è una stradina laterale che conduce alla villa. Scrivo nome e cognome in un rigo sul librone degli ospiti, indicando la residenza. È un sondaggio sui visitatori del sito archeologico. L’uomo in divisa mi fa strada, ignoro che per un paio d’ore egli sarà il mio Virgilio. Lungo il margine del sentiero di pietrisco sono sistemati tre capitelli sequestrati a chi aveva provato a farne un tavolo, mozzati dalle rispettive colonne, probabilmente adornanti e sostenenti edifici romani originariamente siti nella punta dello Stivale. In uno il taglio di un flex interrotto prima dell’irreparabile disastro. Due grandi anfore giacciono sfinite per tutto il ben di dio che hanno contenuto; in una, la commovente cicatrice riparatrice opera degli stessi romani. Virgilio e io procediamo dall’uscita all’entrata, in un ritorno alle origini dettato dal caso. Ecco la palestra, ampia due campi da calcio, il suolo originale che non si deve calpestare, su cui studiano i ragazzi della Ras. Poche colonne sono ancora in piedi, bisogna scatenare la fantasia per ricostruire il resto. Nel triclinio, sull’ampia parete in fondo, al centro è l’affresco che ha ispirato il nome della villa: Arianna, abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso, giace tra le braccia di Ipno, guardata con voluttà da Dioniso.

Alle mie spalle e sotto di me si apre il ventaglio della moderna città di Stabia, chiusa a nord dalla sagoma inquietante del Vesuvio e a ovest dalla tranquillità del mare, le cui acque, duemila anni orsono, lambivano l’odierno entroterra. Un’ampia terrazza a più livelli conduceva gli abitanti e gli ospiti della villa al mare. Laggiù, mezzo sepolta da un intrigo di frasche, una baracca che fungeva da rifugio per i cacciatori. Sotto un arco una colonna fatta a pezzi e, in quello accanto, dietro sbarre che per una volta proteggono anziché imprigionare, la volta affrescata in corso di restauro appartenente al triclinio. Il mio Virgilio prende la palla al balzo e mi racconta che in Canada la gente si mette in fila per ammirare un misero spezzone di colonna romana assicurato in una teca superprotetta con sensori e raggi laser. Sotto i miei piedi una colata di cemento versata a metà degli anni Ottanta sul costone della collina per evitare che franasse spezza l’incanto del viaggio a ritroso nel tempo. Nel cemento sono stati sparati proiettili di acciaio, che reggono una rete metallica di contenimento. Un’archeologa pianse lacrime calde alla vista del materiale rosso che fuoriusciva dal buco che, trivellando, l’operaio apriva nella montagna. La donna implorò l’uomo di piazzare la trivella un metro più in là per non sbriciolare ulteriormente il muro di epoca romana che, evidentemente, si nascondeva sotto il terreno, ma quello rispose: «Che cazzo me ne fotte!». Più avanti una scala perfettamente conservata conduce al piano superiore della villa riservato alla servitù. Tale piano, di cui non è rimasta traccia, tenendo conto che l’altezza media degli antichi romani era di un metro e cinquanta, doveva consistere in una mansarda. La camera da letto è composta di due ambienti: in uno dormiva il domus e nell’altro la moglie; queste stanze erano prive di finestre (fessure posticce sono state procurate nelle mura a posteriori per permettere ai visitatori di osservare gli ambienti). A destra dell’entrata della villa è situata una stanzetta le cui mura sono deliziosamente affrescate con una vasta gamma di colori; alcuni formanti allegri arcobaleni. Virgilio mi fa notare certe linee dritte nel muro principale, formanti gli interstizi di una porta segreta. Da terra arraffa una manciata di lapillo invitandomi a prenderne un po’. Mi informa che il lapillo non si trova in natura a meno che non sia stato eruttato dal vulcano ergo rifletto che in mano tengo le viscere del Vesuvio. Spiega che esso conserva i resti archeologici meglio di quanto le moderne tecniche di conservazione siano in grado di fare. Sulla strada del ritorno Virgilio mi racconta la sua gavetta lavorativa. Mi dice che ha dovuto emigrare, al che rispondo che ho dovuto farlo anch’io.

Davanti alla casupola di lamiere che funge da posto di guardia Virgilio e io ci stringiamo la mano e sanciamo un’amicizia. «Quando vuoi, io sono qua».

Gennaro Chierchia

Collana Transfert

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