Antonio Sgroi - Monumento a Gramsci (part.)

La differenza fra erudizione e cultura viene spesso sottovalutata. Ma in questa differenza si gioca tutta la responsabilità e il valore che possiamo attribuire alla conoscenza.

L’erudizione è onnivora, è una forma di accumulazione di dati, informazioni, spesso appunto, provenienti da fonti disparatissime, le quali però, sebbene interiorizzate e collegate fra loro, possono non fornire ancora necessariamente un “punto di vista”, un quadro d’insieme.

La cultura non ha nulla a che fare con tutto ciò, la cultura non è accumulazione di sapere, la cultura piuttosto si estende in forma ellittica, a imbuto, verso il profondo dunque e anche se è multidisciplinare, tende a contenere una varietà coerente di informazioni, di letture, al fine di restituire uno sguardo, una visione del mondo. La cultura è una chiave di lettura con la quale interpretare personalissimamente e anche spersonalizzandosi nei pensieri degli uomini, nelle opere di coloro che ci hanno attraversato – il mondo, l’oggetto.

L’uomo colto è uno che può non avere letto molto, può avere lacune, anche talora imperdonabili, ma comunque ha una chiara (nel senso di luminosità abbagliante) dimensione nello scibile, è capace di formulare una cosmologia; è come uno scassinatore, un rapinatore del senso, un “grimaldellista” dei significati.

L’erudito accumula orizzontalmente, a macchia d’olio, ma non incide rispetto alla complessità di un fenomeno, o del tutto. Non può giungere a un abbandono, a una intuizione che ferisce e scuote.

Certo le due figure possono talora combaciare e coesistere in un solo individuo, e si tratta di una condizione auspicabile, affinché il sapere non sia – come vuole il nostro tempo settoriale – esclusivamente specialistico e finalizzato a un ambito monodico.

Ma in ogni caso è nella cultura e non nell’informazione, nell’erudizione pura, che risiedono ancora barlumi, quid, input di un vero che è prezioso proprio perché vicino alla sensibilità della cultura, che non alla mera competenza, senza afflato, dell’erudito.

Giuseppe Di Bella

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